E’ uscito lo scorso 3 giugno l’ultimo disco del cantautore orlandino Marco Corrao “Pietre su pietre” (Maremmamo Records/Ird). L’album è il terzo che Corrao pubblica da solista e rimanda a un titolo che vuole evocare l’immagine della costruzione del sentiero di una vita, una pietra dopo l’altra. Nel disco, infatti, si alternano racconti di uomini e percorsi di vita: storie di mafia, di follia visionaria, storie di libertà, spiritualità, solidarietà e anche di morte. Delle suggestioni riverberate dall’ascolto di “Pietre su pietre”, un altro orlandino, Federico Muragliotta ha fatto tesoro: ecco di seguito la sua “non recensione” del disco di Marco Corrao.
“Nell’attimo esatto in cui Erasmo con fare sereno, voltò le spalle, lui fu assalito da un impeto quasi incontrollabile di spegnere una sigaretta in quel malmesso posacenere piazzato sotto il suo mento da oltre un’ora. Rammentò, con un quarto di sorriso, di non aver mai fumato. Forse adesso era giunto il momento di caricare sulle spalle larghe da quarantenne distratto un pacchetto al giorno. C’era da star male, pensò, sempre da star male per qualcosa che non ti appartiene e che ti investe come vento di scirocco quando sei intento a far qualcosa con una attenzione che continui costantemente a perdere. Oh che terra di meraviglia, mormorò, facendo rimbalzare sui denti le parole. Il cameriere impacciato poggiò sul tavolo accanto, con fare ossequioso, due caffè e una spremuta di arance. Respirando profondamente sentì l’odore d’anima di tutta la gente nascosta dentro i palazzi lì attorno. Il vento inciampava nella folta barba ronzando attorno ai suoi pensieri. Alzò la mano destra, afferrò il capello e si accarezzò la testa con gesto dolce e ansioso. La sua proverbiale ironia si era adesso impigliata nei grandi occhi marroni che anche oggi, come ieri, perdevano tempo a cercare di dare sufficiente senso compiuto a una infinita gamma di situazioni ed accadimenti che oscillavano, nella mente, in moto perpetuo. A poche decine di metri di distanza un via vai infinito di macchine ululanti e clacson inferociti, ragazzi festanti del nulla nella pubblica piazza e vuoti a perdere. Due anziani con i pugni chiusi, pronti a difendersi da qualcosa, riposavano i corpi stanchi su una malconcia panchina di legno inchiodata senza logica né armonia alcuna, alle spalle di un giardinetto che regalava ai distratti passanti fiori appassiti, un cartone abbandonato e alcuni bicchieri, ricordi della movida della notte appena trascorsa, e cannucce multicolori.
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Il cielo era terso e solo una nuvola ad est sembrava invitarlo alla calma. Era consapevole di non aver nessuna capacità in termini di accettazione delle situazioni per quello che sono senza possibilità di modificare l’inesorabile procedere dei giorni verso differenti direzioni. Con il trascorrere del tempo si acuivano in lui la voglia e il vizio di credere nella regola di un’altra goccia nel bicchiere, voglia e vizio di tentare ancora. Si trattava in fondo di amore per i colpi di coda che cambiano le regole del gioco e rimescolano, per fortuna, le carte di prestigiatori, manichini, mutanti, vittime e innocenti. Su di un cartellone immenso, alla sua destra, la pubblicità di detersivi in offerta lancio che promettevano risultati strabilianti lo fece piombare in una malinconia trasbordante che riuscì a placare solo concentrandosi sul suono della tromba di Baker che sapeva rievocare a comando.C’erano un incessante andirivieni di promesse non mantenute, bugie a buon mercato, populismi e urlatori, polli baciati da un destino sconclusionato che volavano con ali strappate ad aquile messe al tappeto dalla loro stessa coerenza ed onestà, mani che odoravano di discariche per cuori spremuti sino all ‘ultima goccia. E poi c’era lui. Uomo che tentava di essere uomo, aggrappato al destino e alla vita costruita a piccoli passi con piccoli pezzi e piccole cose in immensi silenzi di alcolica riflessione.
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Pagò il conto. A capo chino e guardandosi bene dall’incrociare lo sguardo dei presenti accennò ad un saluto e si incamminò verso il parcheggio bici poco distante. Si fermò un attimo per sistemare con fare lento i bottoni della camicia, piegò in avanti la visiera del capello e nascondendosi infilzò le orecchie con gli immancabili auricolari, si assicurò che le cinghie dello zaino in iuta fossero ben strette e in sella alla sua due ruote, pedalando con fare serio, scomparve dalla scena e per un attimo da se stesso. Guardare il mare, ma anche cantarlo, lo rendeva irrequieto. I suoi repentini cambi di umore ricordavano molto da vicino quelle mareggiate di febbraio improvvise e scompigliate che lasciavano sgomente anche le pietre. Ogni volta che regalava una carezza a Maria si vergognava sempre un po’ di mani che gli apparivano troppo ruvide e stanche. Mani di terra e acqua, mani di tonnarotto e tonnare, di vento, pane caldo e vino buono, di paura e pugni chiusi, di corde e batterie, di cavi, luci e trasferte, di alberghi da due lire e buona compagnia.
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L’orizzonte si perdeva all’orizzonte e tenendo ben stretto il manubrio continuò ad incontrare e scontrare e contare e contare ancora gente e ancora gente e gente che continuava a coprirgli, comunque, il cuore e l’anima. Una madre quasi disperata rincorreva un bambino con buffi pantaloni larghi a quadri, braccia rosse e sudate. In spiaggia un ragazzo si accingeva a lanciar lontano una lenza quasi immobile, come immerso in un fermo immagine. Aveva davanti tutta la violenza, l’incuria e la scelleratezza a buon mercato che si respirava nell’aria, sugli alberi, tra i cespugli, i ruscelli, nella sabbia e nel triste volo di gabbiani che ricordavano una natura martoriata con masochistica determinazione. Da qualche altra parte, forse nemmeno troppo lontano, intanto, un vulcano si accingeva ad eruttare. Lui stesso si sentiva una struttura geologica molto complessa.Sorrise (amaro) di sé.
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Infilò la chiave delicatamente nella serratura e senza far rumore aprì il portone.Si tolse le scarpe e a passo lento entrò nello studiolo ricavato al secondo piano della sua piccola abitazione. Sollevò le persiane e lasciò che qualche raggio di sole si impadronisse del suo preziosissimo spazio.Malgrado mancasse qualche minuto a mezzogiorno, pigiò il pulsante della piccola lampada posta sul tavolo da lavoro, lasciando che una luce superflua si spalmasse sugli appunti. Sulla poltrona a destra, seduto immobile, Erasmo accennò solo ad un saluto e ripiombò nella lettura della Fattoria degli Animali di Orwel. Ora si sentiva al sicuro. Accordò la chitarra e si sciolse in un re minore settima. Le dita si mossero ora veloci ora lente scivolando sulla tastiera con una piacevole naturalezza da osservare. Spesso gli capitava di fluttuare dentro note ipnotiche oscillando dentro suoni ora puliti, compatti e possenti ora di una sporcizia quasi cattiva. C’erano giorni da vivere e scoprire, ragazze forse da far danzare, tamburi da percuotere, vento da far soffiare. Sulla libreria sopra la sua testa, l’ombra di canzoni lasciava spazio già a qualcosa di nuovo. Un pezzo di mondo, di vita, di anima che respira tra la gente in musica e parole. Pietre su Pietre, pensò.
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Tutto ciò che precede in qualche modo parla di Pietre su Pietre, nuovo Album solista di Marco Corrao (Maremmano Records/Ird) cantautore, chitarrista e produttore siciliano con il quale ho avuto possibilità e piacere di vivere pochi ma sinceri momenti di condivisione tra pensieri e personali creazioni. Dal suo ripetuto ascolto è nato, come corto circuito artistico, il breve racconto appena letto. Pietre su Pietre è un disco semplicemente bello. Scritto, musicato e prodotto con professionalità e maestria. Sono certo che tra vent’anni lo ascolteremo ancora con gusto, perdendoci in parole e note sempre eleganti, che sanno comunque cosa e come colpire. Vi auguro di avere spazio e tempo per regalarvi le pietre e la gente di Marco Corrao”.