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Il diario di Roberta: “Sono rimasta a Bergamo: qui si muore, ma non si molla. E io fingo una normalità che non c’è”

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Pagazzano (BG), 19 marzo 2020.

Quando i miei amici della redazione di Anni60 news mi hanno chiesto di scrivere un diario della quarantena dalla provincia bergamasca, in cui vivo da novembre, non sapevo da dove cominciare. Oggi è il mio terzo giorno di “vero” isolamento. Da questa settimana le scuole in cui lavoro hanno ricevuto indicazioni dall’ufficio scolastico regionale di restare aperte solo in caso di necessità, per cui tutto il personale non docente è stato posto in congedo o ha ricevuto disposizioni di lavorare da casa, mentre tutti gli insegnanti già da qualche settimana hanno attivato la didattica a distanza. Io da quasi un mese provo a fingere una normalità che non c’è più, un po’ per non cedere al panico, e molto di più per far stare tranquilli i miei cari. Perché io sono una delle centinaia di meridionali al nord che hanno deciso di non rientrare a casa, né quando ancora si poteva, né, tanto meno, quando in migliaia hanno attuato a più riprese una “grande fuga”, inutile oltre che irresponsabile. Fisso lo schermo nel tentativo di raccontarvi come stiamo vivendo questi giorni, e non trovo le parole. Perché mentre tutta Italia è chiusa in casa per precauzione da poco più di una settimana, trovando tempo e voglia di dare sfogo alla rinomata italica creatività, in questa zona la vita di tutti è stravolta già dal 21 febbraio, quasi un mese da quando è stato scoperto il primo focolaio in provincia di Lodi, a 50 chilometri da casa mia. Praticamente dietro l’angolo, in una regione in cui percorrere questa distanza per andare a lavorare, fare shopping o andare a divertirsi, è la regola. Già dal 24 febbraio tutte le scuole sono chiuse, le attività sospese, i collegamenti bloccati, in un’atmosfera surreale di chi ha paura ma non sa bene di cosa. E sono bastati un paio di giorni perché il leggero timore di una epidemia diventasse emergenza sanitaria; panico generalizzato; pandemia; morte. Forse non è vero che questo virus è “poco più di un’influenza”, ma è sicuramente vero che è bastardo, si diffonde, terrorizza, toglie il fiato, uccide. Io per prima non ci volevo credere. Eppur si muore. Qui non si intonano inni, canzoni, flashmob dai balconi; solo qualche tricolore esposto alla finestra, un arcobaleno qua e là per tenere impegnati i bambini e sperare che davvero “andrà tutto bene”. Perché, nonostante tutto, “Berghém mola mia!”: Bergamo non molla. Non canta, piange da settimane, ma non molla. Questa provincia operosa, che ha fatto della propria laboriosità vanto e bandiera, oggi è obbligata a fermarsi e lo fa, con dolore. E con sgomento. Con paura. E con dignità. E quando le parole non possono andare oltre la cronaca, ed esprimere il gran miscuglio di sentimenti che in questi giorni agita la bergamasca, con più potenza possono farlo i volti. Quelli assenti dei vecchietti del paese, che da una settimana non si radunano più al bar o alle panchine di fronte al mio portone. Stanno chiusi in casa da quando l’undici marzo un manifesto del comune attaccato sotto il portico annunciava il primo caso positivo nel nostro comune, un paesino di poco più di duemila abitanti, a 15 chilometri da Bergamo. Il volto teso di Carlo, il vicino di casa, sempre energico e instancabile con mille lavoretti da fare in parrocchia e all’oratorio. Adesso l’oratorio è chiuso e anche la chiesa, e i lavori sono rimasti a metà, sospesi, come la vita di chi è costretto a guardare il mondo dal giardino di casa.  E ancora, lo sguardo terrorizzato di Bianca, una collega senior, bergamasca doc con la passione per la montagna. Per le statistiche è un soggetto a rischio e nel suo comune i casi sono numerosi, ma lei non molla, ed è venuta a scuola finché non ci hanno detto di chiudere tutto e organizzarci il lavoro da casa. E gli occhi lucidi del mio amico Francesco, giovane tecnico, robusto e gioviale, quando gli hanno comunicato che il collega Franco se n’è andato per colpa del Coronavirus. Franco aveva 60 anni e sarebbe andato in pensione a settembre con una grande festa. Invece lo hanno seppellito senza amici, e senza esequie. Solo un cero e una preghiera, e le lacrime silenziose e solitarie di chi l’ha conosciuto. Tanti volti e tante emozioni tutte insieme, aggrovigliate, a volte camuffate, distorte, irriconoscibili, in attesa di sentirci dire che, si, è andato tutto bene. Ne siamo usciti. Siamo liberi. La guerra è finita.

Roberta Fonti