PREMESSA
Giugno è il mese dell’Amore in tutte le sue forme e colori. È il mese nel quale la comunità LGBTQ (Lesbiche, Gay, Bisex, Trans e Queer) ma non solo, celebra l’orgoglio di essere semplicemente se stessi, senza filtri e senza pregiudizi, rivendicando parità di diritti e contro ogni forma di discriminazione. Quest’anno le manifestazioni del Pride non potranno svolgersi per le vie delle città, ma la bandiera arcobaleno sventolerà in centinaia di migliaia di piazze virtuali in occasione del Global Pride, il 27 giugno, un mega evento online per portare avanti le rivendicazioni LGBTQ nate proprio la notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969, allo Stonewall di New York.
NINA
Occhi azzurri cristallini e un sorriso accogliente e luminoso, di una luce che viene da dentro. Sono le prime cose che ti colpiscono quando incontri Nina Gaia e sono le stesse che ho notato quando ci siamo riviste a distanza di mesi. Quando ci siamo conosciute, quasi un anno fa, Nina era ancora Antonio, un ragazzo sui trent’anni dai tratti dolci e il carattere tranquillo, con la passione per il cinema, la musica e la meditazione. È stato anche grazie a quest’ultima, dopo un lungo periodo di introspezione, che ha finalmente intrapreso, circa 6 mesi fa, il suo percorso di transizione per conformare il suo aspetto fisico alla sua natura interiore. E con la serenità che la contraddistingue ha accettato il mio invito a raccontarlo.
“Quand’è che, da Antonio, hai capito di essere Nina?” è la prima domanda, spontanea e diretta con cui iniziamo la nostra intervista. “E’ stata un’evoluzione naturale – spiega – perché la consapevolezza di essere trans è qualcosa che è maturato nel tempo: già da qualche anno si era imposta dentro di me la questione del genere, ma è stata un po’ soffocata fino a che si è manifestata in maniera prepotente la scorsa estate. Più che una decisione, scelta o cambiamento, è emerso come un’urgenza vitale, come se non potessi più continuare nei panni di Antonio e quindi da lì è maturata questa ‘scelta senza altra opzione’”.
A differenza di quanto si possa pensare, la disforia di genere è qualcosa di ben diverso dall’omosessualità: un trans non si riconosce nel proprio genere di nascita, mentre una persona omosessuale vi si riconosce pienamente. Tuttavia non si tratta di vedersi nel corpo sbagliato ma di adattarlo a ciò che si sente di essere interiormente: “Non ci sono errori – continua – semplicemente dei percorsi, nel mio caso è stato naturale che in una prima fase di vita ci sia stata l’esperienza di vivere nel genere maschile anche se la mia anima è sempre stata femminile, credo fosse già scritto e segnato. Per questo ho scelto di chiamarmi anche Gaia, perché ha a che fare con la gioia, con il femminile e con la Terra”. Come ho già accennato, l’esercizio della meditazione e dell’introspezione sono stati fondamentali per “liberare Nina”: “La meditazione mi ha aiutata a lasciare andare la paura, perché è quella che ci frena dal compiere il nostro destino. Ho imparato a lasciare andare – prosegue – perché ho visto che ciò che sono è qualcosa di molto vasto e misterioso che va ben oltre me stessa. E a quel punto mi è venuto molto più coraggio di giocarla e non di pianificarla o temerla o difendermi dalla vita, ma di buttarmici”.
Il percorso per il riconoscimento del proprio genere non è solo un’esperienza personale, ma coinvolge inevitabilmente le persone che fanno parte della propria quotidianità: famiglia, amici, colleghi di lavoro. “Ho bruciato presto molte tappe, ho iniziato la terapia ormonale in tempi molto brevi così come il coming-out in famiglia e al lavoro. Non ho mai preteso che gli altri capissero questa cosa, io sto bene con me stessa ed è stato abbastanza naturale dirlo, certo non senza qualche difficoltà”. Come spesso accade, la parte più complessa riguarda la famiglia “perché ti vede con la tua immagine di nascita, ed è molto complicato discostarsi da questa immagine perché richiede l’elaborazione di tanti cambiamenti e tanti processi” prosegue Nina. Che anche a lavoro ha dovuto affrontare qualche momento di disagio: “Lavorando per una grande azienda per fortuna ci sono delle policy per la tutela della diversità e l’inclusione, ma chiaramente i primi giorni entrare in ufficio e percorrere il corridoio per raggiungere la mia scrivania nei panni di Nina non è stato facilissimo. Vedevo le occhiate e, non tanto il giudizio quanto l’imbarazzo o la difficoltà delle persone nell’avermi visto fino a poco tempo prima come Antonio. Erano disorientate e si vedeva, ma lo capisco. Purtroppo dobbiamo comprendere che il mondo non sempre è pronto ad accoglierci e che questo non vuol dire che gli altri sono più cattivi, ma hanno bisogno di sapere e di conoscere le cose. Alla fine quando siamo noi stessi al cento per cento anche gli altri, potranno impiegare magari un po’ di tempo, ma alla fine ci abbracceranno”.
Dall’esterno, in mancanza anche spesso di una corretta informazione su queste tematiche, che sono ancora viste come una trasgressione o addirittura un tabù, le persone vedono qualcosa di “diverso” che non sanno definire: un uomo vestito da donna o un uomo che diventa donna. “Non vedono una donna transgender, dove entrambi i nomi sono corretti, sia donna sia transgender; ossia una persona che fa un percorso di adeguamento del proprio genere, nel mio caso dal maschile al femminile. Una donna transgender, punto. L’ipotesi dell’introduzione del terzo sesso, o del sesso transgender, in questo senso potrebbe essere una buona soluzione, anche se siamo una minoranza”.
La poca conoscenza da parte della società si ripercuote negativamente soprattutto sulle relazioni: “Come tutte le ragazze, anche noi desideriamo avere accanto un compagno ed è lì che iniziano le situazioni sgradevoli e le domande del tipo ‘ma sei un uomo o sei una donna?’, in pratica ti chiedono cos’hai in mezzo alle gambe, il che non ha senso. Se tu mi vedi nella mia forma femminile, e non come un uomo o una crossdresser, il mio sesso potrebbe essere anche opzionale, invece purtroppo si identifica il genere con i genitali e secondo me questa è una visione molto vecchia, perché il sesso di una persona non dipende dai genitali – prosegue ancora Nina – . Data questa visione, si crea molta ambiguità che va a stuzzicare la curiosità e la voglia di trasgressione. Così tu diventi quella cosa strana che una parte di uomini vuole provare proprio per quella particolarità lì. E questo crea disagio, perché tu vorresti essere desiderata, ricercata e amata per ciò che sei, non per quello che hai in mezzo alle gambe”.
In quest’ottica, ci chiediamo cosa possono fare manifestazione come il Gay Pride per dare una visione più realistica delle questioni LGBTQ? “Sicuramente per tutte le questioni legate ai diritti è stato qualcosa di necessario, se pensiamo ai matrimoni omosessuali e alle coppie di fatto, ed è assurdo pensare di aver dovuto lottare tutti questi anni per ottenere una cosa del genere. A maggior ragione per le persone trans c’è ancora tantissimo da fare, perché sono quelle che subiscono di più discriminazioni e problemi nel mondo del lavoro e anche perché compiono dei percorsi di adeguamento che sono complessi, costosi e lunghi, vanno a includere la salute fisica e psicologica e di questo si dovrebbe avere maggiore consapevolezza, a partire dalle istituzioni. Dall’altra parte, il Gay Pride è diventato anche un evento commerciale, una festa colorata, che è bella ma ha un po’ indebolito l’aspetto politico-sociale togliendo attenzione alla realtà delle persone LGBTQ”.
Prima di salutarci, chiedo a Nina un parere e un messaggio per le persone che leggeranno un po’ scandalizzate questa intervista: “Aver paura della diversità vuol dire aver paura della vita, perché la vita stessa in realtà è un grande caos, anche creativo, è imprevedibile; è fatta di migliaia di variabili e cercare di rinchiuderla in un modello sociale e culturale è riduttivo, è come limitarla. Siamo di base persone libere e istintive e quando invece ci sottoponiamo a tutte queste regole e a questi dogmi diventiamo rigidi e soffochiamo la nostra libertà di esprimerci. Il mio invito è a non avere paura, a sperimentarsi, a non temere la vita ma a gioirla”.