Home Attualita' Femminicidio, Pink Project scrive ai giornalisti: “il linguaggio veicola significati”

Femminicidio, Pink Project scrive ai giornalisti: “il linguaggio veicola significati”

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Il femminicidio rappresenta oggi una parte preponderante degli omicidi che vedono vittime le donne, con la caratteristica della maturazione in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali poco stabili. La cronaca quotidiana ci rimanda dati insostenibili: se consideriamo che solo dall’inizio del 2020 ad oggi sono 20 le donne uccise, è legittimo parlare di “emergenza nazionale”. Da anni i centri antiviolenza sono il primo baluardo di resistenza e sensibilizzazione al fenomeno; professionisti e volontari ogni giorno e strenuamente si confrontano con i tagli sempre più frequenti alle loro attività e con le menti ristrette di una società che non ha ancora compreso in toto l’entità e le coordinate dell’emergenza. Tuttavia, ad essere implicati in prima persona al fianco dei centri antiviolenza nel processo di riconoscimento del fenomeno e della relativa sensibilizzazione allo stesso, sono gli operatori dell’informazione attraverso cui ogni informazione, ogni notizia, passa e viene veicolata.

“Quando si legge un fatto di cronaca che rimanda alla violenza, si è coinvolti emotivamente con rabbia, sdegno, incredulità, impotenza. Quando si parla di violenza di genere, di violenza contro le donne ad esempio, di femminicidio, sembra non ci sia la possibilità di partecipare attivamente ad una resa dei crimini ed immaginare che il fenomeno possa cessare o essere contenuto, se non con l’applicazione di pene dure e certe nei confronti del criminale. Invece ognuno di noi può fare la sua parte nel momento principale, ovvero la prevenzione, attraverso l’informazione e la sensibilizzazione al tema, per cui tutti e tutte possiamo sentirci protagonisti di un movimento verso un cambiamento condiviso”.

Proprio per questa ragione il Centro Antiviolenza Pink Project di Capo d’Orlando ha deciso di scrivere una lettera aperta indirizzata agli operatori ed alle operatrici dell’informazione, chiedendo che gli stessi si facciano portavoce del cambiamento della cultura violenta.

“Il femminicidio è un fenomeno ancora troppo diffuso, in Italia come nel resto del mondo. – si legge nella nota – Per combatterlo occorre comprenderne le caratteristiche. Sistematico, trasversale, specifico, culturalmente radicato è un fenomeno endemico. Rappresenta l’ultimo anello di un crescendo di vessazioni e violenze, che spesso rimangono invisibili.

Le immagini e le narrazioni sono potenti e suggestive, si radicano nella memoria, per questo vorremmo sottolineare con forza la responsabilità che il linguaggio mediatico deve assumere per partecipare con consapevolezza al contrasto del fenomeno della violenza di genere, più in particolare della violenza maschile contro le donne, per non incorrere più nel grave errore di assicurare la presenza su giornali, testate e media del fenomeno più per la “notiziabilità”, che per la realtà. Il linguaggio veicola significati! Le parole che vengono scelte per dare un’informazione, ad esempio per descrive un reato di femminicidio, influenzano la percezione sociale che sia ha dell’evento criminale, fornendo una “opinione pubblica” sul fenomeno violenza di genere. In questo senso, si parla di responsabilità da parte di chi opera nel mondo dell’informazione, in questa direzione FNSI, l’ODG, l’USIGRAI, GiULiA orientano alla formazione sul tema e chiedono l’applicazione del MANIFESTO DELLE GIORNALISTE E DEI GIORNALISTI PER IL RISPETTO E LA PARITA’ DI GENERE NELL’INFORMAZIONE CONTRO OGNI FORMA DI VIOLENZA E DISCRIMINAZIONE ATTRAVERSO PAROLE E IMMAGINI, presentato a Venezia il 25 Novembre 2017. 1Occorre quindi partecipare alla prevenzione ed al contrasto del fenomeno, con una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali e giuridiche.

Alcune scelte narrative che si possono classificare come bias contribuiscono direttamente ed indirettamente alla formazione di giudizi, influenzando potenzialmente, un’ideologia, un’opinione,dove addirittura un comportamento- come ad esempio:

° “raptus” che giustifica la condotta violenta e l’omicidio, attenuandone la responsabilità, nei comunicati spesso non emerge che il femminicidio avviene dopo lunghi periodi di maltrattamento, denunce, stalking che evidenziano come tutto sia “premeditato” e non avvenuto in circostanze imprevedibili. La psichiatria, oltre tutto, smentisce le connessioni tra violenza e patologie psichiatriche;

° “gelosia”, che viene utilizzata ampiamente come se in una logica causa-effetto il delitto fosse attribuibile ai comportamenti della donna;

° “delitto passionale” che richiama quello che è stato fino a poco tempo fa il “delitto d’onore” e alimenta un immaginario confuso e improprio su cosa sia l’amore;

° vengono riportate “le parole dell’aggressore” come a convalidarne la prospettiva, a capirne il punto di vista (vittimizzazione della colpevole), mentre si dovrebbe favorire un

° ripensamento delle relazioni tra i generi, ribaltando il punto di osservazione, rappresentando la donna come soggetto che vive il dolore della violenza, facendo esperire al lettore «l’orrore della violenza assieme alle protagoniste», restituendo lo sguardo alla vittima e guardando la scena con i suoi occhi.

° Frequente il richiamo alla conflittualità che trasforma la violenza in problema della singola coppia (“al culmine di una lite”, “litigavano sempre”).

Si devono smentire gli stilemi romantici: l’amore non arma le mani, non distrugge, non nega la vita; lo fanno il potere, il dominio e il possesso. Non si uccide perché si vuol bene, non si uccide perché si ama ed il rispetto per una persona che è stata uccisa, o che soffre a causa di una violenza subìta, riguarda anche l’uso che si fa della sua immagine.

Ad esempio, nel recente caso di Lorena Quaranta, vittima di Femminicidio a Furci Siculo, quello che emerge immediatamente dagli articoli pubblicati in rete è l’iconografia associata, una coppia serena, la donna insieme al suo assassino in un momento intimo. Anche l’immagine forse più delle parole, evoca associazioni di significato sbagliate perché rimanda al fantasma di una relazione, recando una nuova offesa alla vittima, anche nel caso in cui la foto fosse stata condivisa nel suo profilo facebook, così come le foto che ritraggono i figli delle donne uccise. Ancora a livello comunicativo immagini controproducenti sono quelle delle donne pestate, ferite, passive ed inerti perché si rischia di rimandare unicamente la fragilità della donna, di cui le campagne mediatiche sono piene.

Se riconosciamo l’origine culturale (patriarcale) della violenza di genere, possiamo immaginare un cambiamento fondamentale portato avanti anche dagli operatori e dalle operatrici dell’informazione, attraverso una narrazione mediatica della violenza che condivida e diffonda corrette informazioni su ciò che accade, facilitando la riflessione delle persone su che cos’è la violenza di genere.

*Contributi rintracciati dai testi della prof.ssa Graziella Priulla, dell’Assocazione Nazionale GiULia Giornaliste, dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti.”